FAME D’ARIA

FAME D’ARIA

Fame d’aria è l’ultimo libro di Daniele Mencarelli edito da Mondadori.

Daniele Mencarelli ormai non ha più bisogno di presentazione da un pezzo.

Fame d’aria mi è piaciuto molto per la struttura, per la scrittura e per il modo con il quale in tempo reale il lettore riceve tutto il carico dei diciotto anni di vita con Jacopo.

Jacopo non è il protagonista, Jacopo è il figlio di Pietro, un uomo.

Dico solo un uomo perché è quello che ho pensato conoscendolo una riga dopo l’altra.

Pietro non è un supereroe, non è un paladino, non è neanche un esempio. Pietro è semplicemente una persona, un essere umano come lo sono tutti coloro che cercano di comportarsi nella maniera giusta contro le ondate di quella tempesta che è la vita: un incessante e continuo sferzare che si abbatte inesorabile.

Anche per questa lettura ringrazio Monica, e poi dico grazie anche a Luciana per avermi segnalato l’incontro con lo scrittore organizzato da Il piacere di raccontare

In questo modo ho potuto ascoltare direttamente le parole di Daniele Mencarelli e scoprire come è nata la sua esigenza di raccontare questa storia.

Circa sei anni fa ha incontrato un Pietro e ha iniziato a mettere insieme i tasselli, dettagli che sembrano non avere importanza finché l’accumulo diventa un elemento che si trasforma in scrittura, pensando a come tradurre un ricordo “salvato con nome” come fosse un documento che ha il potere di illuminare il percorso al quale dare vita.

L’immersione dentro una vita non sua è stato brutale per Daniele Mencarelli, non si è permesso nessun fregio che nascondesse lo sfregio che doveva sempre prevalere.

In questo libro l’autore è passato alla terza persona mantenendo però sempre il presente perché ama dare l’impressione che i fatti avvengano mentre vengono letti perché li sente meno distanti.

Devo dire che l’obiettivo è stato pienamente raggiunto perché anche io da lettrice mi sono sentita letteralmente dentro la storia.

Il romanzo ha un antefatto: nel 2000, mentre va a prendere una birra, Pietro incontra Bianca. Si riconoscono ed è colpo di fulmine.

Nel 2023 Pietro è un cinquantenne e la sua macchina si guasta nel Molise, con lui non c’è Bianca ma c’è il figlio Jacopo che ha 18 anni e che purtroppo è autistico a bassissimo funzionamento.

Il paese dove si fermano per cercare un meccanico: Sant’Anna del Sannio non esiste nella realtà anche se assomiglia a tanti posti che ognuno di noi può identificare.

Pietro e Jacopo sono diretti in Puglia dove li aspetta la moglie per festeggiare il ventesimo anniversario di matrimonio.

L’imprevisto dura tre giorni e ruota intorno a tre personaggi: Oliviero il meccanico, Agata la titolare del bar, e Gaia. Grazie a lei si entra nel mondo interiore del padre e si scopre tutto quello che manca alle famiglie come la loro.

Seme fondamentale: la scena come momento di svelamento dell’umano. Esattamente come ti dicevo, il Pietro che è arrivato a me.

Daniele Mencarelli nasce come poeta, la poesia riesce a dare un nome alle cose, coglie la profondità rispetto alla scena. Narrativa invece è architettura di scene che poi assume forma di trama e di arco psicologico dei personaggi.

Infatti la poesia non deve essere “poetichese”, ma deve vivere dentro gli elementi della forma romanzo.

La letteratura è un gesto che vuole essere di testimonianza.

Queste parole di Daniele Mencarelli trovano una particolare concretizzazione nel libro Fame d’aria secondo me.

Ma quello che mi ha maggiormente colpita è stato conoscere la personale “fame d’aria” dell’autore.

Pagine troppo inchiostrate che danno un senso di claustrofobia.

Da questa “fame d’aria” nasce letteralmente l’esigenza di aprire degli spazi verticali nel racconto orizzontale.

La necessità di percepire molta presenza di bianco, cioè bisogno di spezzare la frase e andare a capo come se fosse un bisogno di aria.

Ragionando da poeta in certi momenti dell’umano si arriva con una lingua spezzata. Nei luoghi più alti dell’uomo si arriva solo con la lirica.
Una personale fame d’aria.

E tu? Quando avverti la tua fame d’aria?

FORSE NON SBAGLIA CHI FA CASTELLI IN ARIA

FORSE NON SBAGLIA CHI FA CASTELLI IN ARIA

 

Abbiamo avuto prova di come la nostra consuetudine possa crollare facilmente come un castello di carte.
Tu avevi avuto modo di rifletterci in questi termini?
In un soffio il quotidiano è passato dall’essere routine in qualche caso anche oggetto di lamentela, all’essere una preziosa certezza che rivorremmo.
In questo, credo possiamo dire di essere accomunati a livello globale, sebbene ognuno abbia la propria storia, ognuno percorra il proprio cammino, e ognuno abbia le proprie abitudini.
Abitudini che per qualcuno erano forse diventate mattoni pesanti come la assuefazione, per altri invece modulabili e sfuggenti come sabbia, oppure, proprio come nella favola delle tre case, costruite con le carte.
Carte che dicono chi siamo come documenti o badges, carte che ci inquadrano, ci consentono accessi, ci conducono, ci regolamentano, ci finanziano: tessere, biglietti, mappe, contratti, banconote.
Carte che rappresentano le nostre azioni, il nostro vivere.
Carte che noi accumuliamo, carte che teniamo in equilibrio.
O equilibri che tengono in piedi noi.
Tecnicamente per costruire un castello le carte troppo nuove o perfette scivolano: ne occorrono di “vissute”.
Carte che abbiano giocato, carte che siano state tenute tra le mani. Mani che devono essere ferme.
Mani che però non potranno mai stringere, perché l’equilibrio non si può tenere in pugno.
E mai come ora ne abbiamo avuto una concreta e inquietante prova.
La domanda è: cosa impariamo esattamente da questa dimostrazione?
Chi o cosa ha veramente potere su così tanti “castelli” e come abbiamo potuto lasciare che cadessero nella maniera repentina alla quale abbiamo assistito?
Ora abbiamo meno carte a disposizione per ricostruire, e dovremo adottare “consuetudini” diverse, che non saranno scelte.
O forse dovremmo cogliere l’occasione per imparare a mettere in discussione, a farci domande, a prendere in considerazione tutte le ipotesi, sempre.
Nelle Operette Morali Giacomo Leopardi chiede:
“… perché qualsivoglia consuetudine, quantunque corrotta e pessima, difficilmente si discerne dalla natura?”
La risposta parrebbe poter essere di Erasmo da Rotterdam:
“Non esiste pratica, per quanto infame, per quanto atroce, che non si imponga, se ha la consuetudine dalla sua parte.”
Consuetudine oltre che modo costante di procedere è anche fonte di diritto, la fonte non scritta per eccellenza che consta di due elementi: uno di tipo materiale cioè la reiterazione di un determinato comportamento da parte di una collettività; l’altro, di tipo soggettivo ancorché oggettivamente verificabile, è invece la convinzione diffusa che quel comportamento sia, non solo moralmente o socialmente, ma giuridicamente obbligatorio.
Dunque dovremmo considerare di ricostruire su basi per alcuni versi inconsuete e di ripartire prima di tutto dalla consapevolezza di quale sia la vera essenza importante del nostro vivere.

 

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