Sono nata il giorno della strage di Piazza Fontana e sfido persino chi non è superstizioso a non vederci segni nefasti.
Sono nata in casa, sul tavolo della cucina, come una pagnotta fresca di prima mattina.
Al richiamo di mia madre che lo scuoteva dicendo “è ora,” mio padre pensò bene di girarsi dall’altra parte per continuare a dormire.
Come dargli torto? Stavo arrivando all’alba importuna come una sveglia.
Sono nata a Cilavegna e sono una delle ultime persone a poterlo dire: a partire da gennaio 1970 non fu più possibile avvalersi di un’ostetrica, e divenne obbligatorio partorire in ospedale. Non essendoci ospedali a Cilavegna, da quella data in avanti i nuovi nati videro la luce altrove.
Sono nata in Lomellina, terra di nebbia e zanzare, ma mio padre ha origini venete e la mia bisnonna da parte di madre era tedesca. In pratica sono un miscuglio.
Sono nata in una famiglia semplice, ho avuto cose semplici e un’infanzia felice.
La nonna materna, che mi accudì dal momento in cui mia madre riprese il suo lavoro di impiegata, aveva le ginocchia gonfie di tutti i suoi giorni da mondina, e, non potendo muoversi agilmente, mi intratteneva raccontando.
Il risultato fu che prima di iniziare a camminare parlavo perfettamente senza i classici storpiamenti infantili, e conoscevo filastrocche, preghiere e numeri.
Le parole furono i miei primi giochi, le mie prime amiche, il mio primo nutrimento.
Nonostante ciò, il debutto alla scuola materna fu piuttosto traumatico: la mia timidezza era inesorabile.
Non avevo ancora capito il piacere della chiacchiera e della socialità, concetto che ho ampiamente recuperato dopo il medioevo della adolescenza.
Ma procediamo per gradi: per le suore che conducevano l’asilo, il mio difetto di interazione non era un aspetto degno di nota, anzi. Piuttosto, il problema era creato dalla mia incapacità di addormentarmi dopo pranzo.
Ferma nella mia brandina, intrecciavo in silenzio le frange dei ruvidi plaid a quadrettoni sotto i quali avrei dovuto invece prendere sonno.
Non mi sembrava di creare disturbo, ma quello fu uno dei miei primi errori di valutazione: ho ancora nitido il ricordo del rimprovero di Suor Antonia, che tra le sorelle era quella più brava e quieta.
Successivamente piuttosto che le frange presi ad intrecciare i miei tentativi di intenerimento al grande cuore di mio nonno. Lui faceva i turni di notte e la mattina, esausto, invece di andare a riposare accoglieva le mie richieste, avallando di fatto l’intento di saltare la scuola materna.
Un tumore se lo è portato via quando avevo solo cinque anni lasciandomi in cambio un vuoto enorme e un desiderio irrealizzato.
Mi diceva sempre “appena sarò in pensione ti insegnerò il tedesco.”
Durante la guerra fu usato come interprete dopo che un ufficiale tedesco, colpendolo, lo sentì replicare nella sua lingua.
Pensavo che avrei imparato facilmente, che avrei ascoltato felice come con le storie della nonna, e invece non ha potuto dirmi più nulla.
Quando giunse il tempo delle elementari il giovedì non si andava a scuola, ma ormai a me non importava granché.
Qualcuno ci chiamava ancora remigini: in fila per due, mano nella mano, con il soprabitino sopra al grembiule nero dal quale spuntava il grosso fiocco blu annodato sotto al colletto bianco.
Si iniziava il primo di ottobre quando ancora i banchi erano scrittoi, e le cartelle contenevano un quaderno a quadretti e uno a righe, di quelli piccolo formato, con il foglio di carta assorbente per l’inchiostro delle penne stilografiche: testimoni di una scrittura che non esiste più.
La Treccani ci dice che Coltan è un termine con cui, per contrazione, si identifica la columbo-tantalite, minerale nero metallico composto da columbite e tantalite. È una delle combinazioni in cui è possibile rintracciare il tantalio, metallo con cui si realizzano condensatori di piccole dimensioni ma molto efficienti (essenziali quindi in dispositivi portatili quali telefoni cellulari e computer, nonché nell’elettronica per l’automobile), ragione per la quale il coltan è diventato una materia assai ricercata.
In Congo, e in particolare nella zona di confine con Ruanda e Uganda, ci sono le miniere Luwow tristemente note per lo sfruttamento dei lavoratori e per l’orrenda piaga del lavoro minorile.
Amnesty International riferisce una stima Unicef del 2014 ma possiamo presumere che il numero sia sottostimato, dato il continuo esponenziale aumento di devices elettronici in circolazione.
Abbiamo ancora tutti impresso nella mente il nome Congo belga, che ci riporta direttamente al controllo dei territori cessato in tempi recenti come testimonia anche questo video dell’Istituto Luce datato 1960:
Un ricordo che per me si colloca sui banchi delle scuole elementari è: Zaire, il nuovo nome a partire dal 1971. La decisione viene presa da Mobutu che in una sorta di girandola politica tra avvicendamenti di Repubbliche e dittatura di fatto, è rimasto fino al 1997 figura ambigua in contrasto tra: il ruolo di padre della patria che intendeva ricoprire, e un profilo autoritario e corrotto.
La neonata Repubblica Democratica del Congo però non vede profilarsi la pace, e la corsa all’accaparramento del coltan aggrava sia il già duro conflitto interno su basi etniche, che quello con i confinanti Ruanda, Uganda e Burundi.
Con la dichiarazione del suo Presidente del 2 giugno 2000, il Consiglio di Sicurezza chiede al Segretario Generale di istituire un gruppo di esperti sullo sfruttamento illegale delle risorse naturali e di altre forme di ricchezza della Repubblica Democratica di il Congo, per un periodo di sei mesi, con il seguente mandato: – Dare seguito alle segnalazioni e raccogliere informazioni su tutte le attività di sfruttamento illegale delle risorse naturali e altre forme di ricchezza della Repubblica Democratica del Congo, anche in violazione della sovranità di quel paese; – Ricercare e analizzare i legami tra lo sfruttamento delle risorse naturali e altre forme di ricchezza nella Repubblica Democratica del Congo e la continuazione del conflitto; – Per tornare al Consiglio con raccomandazioni.
Con questa letteradatata aprile 2001 Kofi Annan presenta il suo Rapporto del gruppo di esperti sullo sfruttamento illegale delle risorse naturali e altre forme di ricchezza della Repubblica Democratica del Congo.
Un rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 2003 denuncia che i proventi dello sfruttamento del coltan da parte degli stati avversari sono serviti a finanziare i propri eserciti contro il Congo stesso. Oltre al fatto che le operazioni di ricerca ed estrazione del coltan da parte di forze ribelli, hanno provocato in Congo gravi danni ambientali all’interno di riserve e parchi nazionali.
Le principali multinazionali fondamentalmente dichiarano di non essere connesse allo sfruttamento, ma in fondo basterebbe risalire la corrente di società in società per arrivare alla fonte.
Afrewatch cita una causa: Lo scorso dicembre, un avvocato statunitense ha intentato un’azione legale collettiva per conto di 13 famiglie congolesi in un tribunale di Washington. In particolare, critica Apple, Alphabet, Dell, Microsoft e Tesla per l’utilizzo del cobalto nonostante sappia che è stato estratto con la forza dai bambini. Questa causa potrebbe spingere i minatori di materie prime e le società tecnologiche che hanno bisogno di cobalto a rinunciare a procurarselo da minatori artigianali. Glencore, che domina il mercato, sta seguendo questa strategia per non essere più associata al lavoro minorile.
Il sito Glencore infatti ci parla soltanto di Australia o Canada presentando nella home sostenibilità, giornata internazionale di donne e ragazze, giornata internazionale dell’educazione e diritti umani.
Lo stesso dicasi per Trasfigura che si presenta con un programma e una catena di approvigionamento responsabile.
Ma allora, dove finisce il coltan congolese, che viene stimato rappresentare la maggior quota in percentuale rispetto alla produzione totale?
Allo stesso modo Reuters dettaglia i profili di alcune società cinesi: China Molybdenum Luoyang Co Ltd e Zhejiang Huayou Cobalt Co Ltd, e anche in questo caso in calce appare la dicitura “la cinese Huayou Cobalt non acquisterà cobalto artigianale da due miniere nella Repubblica Democratica del Congo fino a quando non sarà sicura che il materiale che producono è esente da violazioni dei diritti umani secondo standard che saranno decisi dall’industria.”
Chissà se possiamo sperare che alla teoria segua la pratica.
Ho già citato enti, associazioni, consigli di sicurezza, società e quant’altro, eppure nelle miniere di Luwow si continuano a sfruttare oltre ogni limite persone, e addirittura bambini, sotto gli occhi di tutti. O forse dovrei dire sotto gli schermi di tutti, compreso il mio, dal quale ti sto scrivendo.
Sul caso cobalto RDC International rights Advocatesscrive: a nome dei bambini minatori, la causa richiede che le aziende paghino risarcimenti e finanzino programmi di riabilitazione ed educazione per le famiglie dei bambini minatori uccisi o mutilati dalle terribili condizioni nelle miniere di cobalto. Apple, Alphabet (Google), Dell, Microsoft e Tesla sono tra le aziende più ricche e potenti del mondo.
Queste aziende pretendono di essere verdi e futuristiche, ma i loro prodotti sono Powered by Blood Cobalt. I consumatori che acquistano questi prodotti dovrebbero chiedere alle aziende di aggiustare la loro catena di fornitura piuttosto che passare anni a combattere in tribunale per evitare la responsabilità per il Blood Cobalt che i loro prodotti attualmente utilizzano per funzionare.
I consumatori siamo noi.
Concludo con la citazione che mi ha mandato Massimo: Il mondo è un posto bellissimo in cui nascere se non t’importa che la felicità non sia sempre così divertente se non t’importa un po’ d’inferno di tanto in tanto proprio quando tutto va bene perché perfino in paradiso non si canta tutto il tempo Il mondo è un posto bellissimo in cui nascere se non t’importa che qualcuno muoia sempre o forse solo muoia di fame ogni tanto cosa che poi non è così terribile se a morire non sei tu Oh il mondo è un posto bellissimo in cui nascere se non t’importa troppo di alcune teste perse nei posti di comando e a una o due bombe di tanto in tanto sul tuo viso alzato o ad altre simili scorrettezze a cui questa nostra società “di marca” si dedica e con i suoi uomini che vogliono distinguersi e con quelli destinati ad estinguersi e i suoi preti e altri poliziotti e le sue svariate segregazioni e indagini parlamentari e altre costipazioni di cui la nostra povera carne è erede Sì il mondo è il posto migliore di tutti per un sacco di motivi come far una scena da ridere e far una scena d’amore far una scena di tristezza e cantare canzoni con toni bassi e avere l’ispirazione e andare in giro a guardare tutto e odorare i fiori e dare una pacca sul sedere alle statue e perfino pensare e baciare la gente e fare bambini e indossare pantaloni e agitare capelli e ballare e andare a nuotare nei fiumi o durante un picnic nel pieno dell’estate e così in generale “viversela” Sì ma proprio sul più bello arriva ridendo l’impresario delle pompe funebri. Lawrence Ferlinghetti
Per intrecciare due diversi filoni: libri di Monica e idee per i regali, ti propongo Il treno dei bambiniche appunto ho ricevuto in dono da Monica lo scorso Natale, perché questo libro mi ha preso il cuore, dandomi mille spunti di riflessione.
Viola Ardone apre un uscio sui bassi napoletani, ma una volta varcata la soglia ci si trova dentro il mondo di un bambino, che assorbe, che impara, che conosce persone e cose entro i limiti che può raggiungere, e che allo stesso si spinge oltre, portando con sé anche il lettore.
Inesauribile il flusso di pensieri che si scatenano. L’infanzia è un tema che mi è particolarmente caro per molti motivi, non ultimo il fatto che i bambini ci insegnano, ma troppe volte noi ce ne scordiamo.
Inesorabile il dilemma. Personalmente non ero a conoscenza dell’esistenza di questi treni, o meglio, di questi trasferimenti nello specifico contesto narrato, anche se mi sono subito tornati in mente i bambini di Chernobyl che dopo il disastro sono stati ospitati da molte famiglie anche nel mio paese di origine.
Inevitabile l’ondata di considerazioni a cascata, dall’ambito generale fin nel profondo del livello personale, in tema di incomunicabilità e di barriere.
Imprescindibile l’ammirazione per la forza. Intrinseca, lieve eppure dirompente.
Implacabile l’analisi che ne scaturisce e il faccia a faccia con le reazioni e le emozioni personali sulla morte.
Ho pianto.
Sono stata catapultata anche io su quel treno ma non solo, insomma non so se è chiaro: questo libro mi è piaciuto e te lo consiglio.
1947: un anno significativo per me, l’anno di nascita di mia madre. Lei che pur di leggere comprava 10 lire di giornali vecchi. Lei che mi ha fatta crescere in una casa con una grande libreria ricca di libri di ogni tipo. Lei che amava leggere, e semplicemente leggeva. Mai nessuna imposizione, mai nessun consiglio particolare. È stato tutto naturale, ricordo ancora i titoli che da bambina mi colpirono maggiormente, allora non potevo ancora conoscerne la storia, eppure erano già nella mia mente, pronti ad essere riscoperti al momento opportuno. E un giorno, semplicemente come lei, ho iniziato a leggere anch’io.
1947 è anche l’anno di nascita del premio letterario Strega che prese il nome dal liquore prodotto nell’azienda della famiglia di Guido Alberti che ne fu mecenate e che successivamente, dopo il matrimonio con l’astrologa Lucia Alberti, intraprese la carriera di attore e fu diretto da registi come Federico Fellini Francesco Rosi, Pier Paolo Pasolini, Eduardo De Filippo e Roman Polanski. Una biografia che già di per sé sembrerebbe un romanzo.
Nella lunga lista di vincitori delle edizioni che si sono succedute di anno in anno compaiono nomi di tutto rispetto e qualche giorno fa leggevo una statistica pubblicata da Gabriella che evidenziava una schiacciante maggioranza maschile.
Io sinceramente devo recuperare parecchie cose del passato, ma Monica mi ha aperto una finestra sul presente, donandomi anche una chiave di lettura per il libro vincitore dell’edizione 2020: Il colibrì di Sandro veronesi edito da La nave di Teseo.
Mi ci sono affacciata volentieri, senza conoscere l’autore, senza conoscere il precedente successo Caos Calmo e senza conoscere le varie dinamiche che hanno portato a questa seconda vittoria.
“Tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo.”
La citazione della seconda di copertina offre immediatamente il primo spunto di riflessione: d’improvviso si considera la staticità come uno sforzo, e non come l’assenza di movimento per antonomasia.
Il movimento del libro è costituito dai salti temporali con i quali l’autore conduce la narrazione secondo un filomolto simbolico, alternando scambi di lettere e digressioni a racconti di vita quotidiana in bilico tra la apparente normalità e un crescendo di situazioni paradossali.
Ho trovato particolarmente curioso come le vicende piuttosto inverosimili del protagonista mi facessero pensare proprio a Forrest Gump, una sorta di coincidenza, dato che lo avevo appena riconsiderato.
Ma seguendo l’idea del colibrì, e provando a volare all’indietro per rivedere tutto da una prospettiva diversa, si elabora l’idea di metafore a riconferma dell’unica vera certezza che abbiamo: la vita ha in serbo sorprese e spesso rivoluziona piani e convinzioni. In realtà però non siamo fermi, resistiamo, cosa ben diversa.
Penso di non essere l’unica ad aver trovato una sorta di incrocio con le esperienze personali dolorose, naturalmente poi ognuno prosegue sui propri binari, ma rimangano in comune le cicatrici.
Questo libro mi ha donato anche un rimando all’infanzia nel leggere le descrizioni di luoghi estivi: il mare nei pressi di Bolgheri, Marina di Bibbona, Punta Ala, avendo anche io trascorso le vacanze esattamente su quello stesso litorale, e mi sono ritrovata ad allargare l’Amarcord fino al pensiero di come si diano per scontate cose che fino a questa estate particolare non avremmo mai pensato potessero svanire.
Stregata dunque? No, ma contenta come ogni volta che una lettura ispira riflessioni.
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