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Il caffè sospeso consiste in un piccolo gesto a beneficio di uno sconosciuto.
Qui pensavo di estrapolare l’idea trasformandolo in una dedica.
E il primo caffè sospeso è per Anna Politkvoskaja.
I motivi sono davvero tanti e in questi giorni in cui ci ritroviamo a fare parecchie riflessioni, la mancanza di un certo tipo di Giornalismo con la G maiuscola pulsa e si avverte ancor più spiccatamente.
Il primo ricordo che ho di lei è legato alla tragedia del 2004 alla scuola in Ossezia: Beslan.
Un nome che è diventato sinonimo di orrore puro.
Della storia del tè si è detto parecchio, ma siccome qui si parla di caffè passiamo pure oltre. Lei era intenzionata ad andare sul posto a tentare di negoziare, come aveva già fatto con coraggio per gli ostaggi del teatro Dubrovka. Successivamente è rimasta a fianco dei parenti delle vittime, consigliando loro di rivolgersi alla corte dei diritti umani di Strasburgo e dando un contributo importante nella lotta per avere giustizia.
Anna è nata a New York, eppure si è battuta per denunciare le violenze dell’esercito russo in Cecenia, Daghestan e Inguscezia, scrivendo più di duecento articoli per la Novaja Gazeta senza mai farsi intimorire dalle minacce di morte ricevute. Minacce che si sono rivelate fondate in circostanze che trovo particolarmente terribili.
Ma ci ha lasciato l’esempio di ciò che significa scrivere per un giornale, di ciò che significa andare alla ricerca della verità, di ciò che significa non farsi manipolare.
E ogni volta che non andiamo a fondo nelle cose, ogni volta che accettiamo flussi di informazioni palesemente pilotate, ogni volta che ci accontentiamo di non porre domande, è come se tradissimo anche lei.
Non è la sola, certo, ma da sola ha fatto tanto, finché ha potuto.
Emblematica una delle sue frasi: “l’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede.”
Quando ci accorgiamo che ciò non accade, cerchiamo di vedere da soli.

 

 

 

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