You make me feel like it’s Halloween la prima volta che ho ascoltato questo brano gotico elettronico dei Muse ho pensato a un complimento: mi fai sentire come se fosse Halloween. Forte!
In realtà però il testo della canzone racconta di come ci si sente in trappola.
Pensando a una situazione senza via d’uscita, ti ritrovi a immaginare scenari da film horror? Sicuramente i Muse hanno giocato con questo concetto.
I riferimenti sono davvero tanti, vuoi citarne qualcuno tu?
Ci sono varie interpretazioni di You make me feel like it’s Halloween, alimentate anche dalla frase finale: but you are the caretaker cioè “ma sei tu il custode.”
In una intervista Matt Bellamy ha scherzosamente dichiarato che c’erano troppe canzoni sul Natale ed era tempo che qualcuno celebrasse qualche altra festa, come Halloween ad esempio.
Tu cosa ne pensi?
Indubbiamente i Muse nel corso di questi venti anni costellati dai loro successi ci hanno abituati a ben altre emozioni.
Personalmente sono sempre stata colpita in primo luogo dalla carica potente che Matthew Bellamy & Co. Riescono a tramettere, ma anche dall’estro che li contraddistingue unito ad un genere del tutto esclusivo che inizialmente rendeva complicato incasellarli in un genere musicale definito.
Qual è la tua preferita tra le loro canzoni?
Lo so, non è facile scegliere, io non riesco a stilare classifiche, sebbene abbia un legame speciale con alcuni dei loro brani.
Alla luce di questo possiamo forse riconsiderare You make me feel like it’s Halloween più per il messaggio che per le citazioni horror, sei d’accordo?
Il 26 ottobre i Muse saranno all’ Alcatraz di Milano ottimo modo per sentirsi in Hallooween mood.
West Side Story nasce come spettacolo teatrale a Broadway e Jack Gottlieb ci racconta di come fosse stato pensato traendo ispirazione da Romeo e Giulietta di Shakespeare e di come Jerome Robbins avesse inizialmente immaginato Giulietta come una ragazza ebrea e Romeo come un cattolico italiano. L’azione, ambientata durante la stagione Pasqua / Pasqua ebraica, avrebbe dovuto svolgersi nel Lower East Side di New York City. Quindi il titolo avrebbe potuto essere EAST Side Story oppure Gangway.
Trovo assolutamente comprensibile che Steven Spielberg abbia dichiarato che è stato il film più arduo della sua carriera.
Ho iniziato a guardarlo insieme a tutti i presupposti positivi, e con tutta la curiosità di scoprire come l’ardua sfida fosse stata risolta.
L’inizio mostra l’imminente demolizione del quartiere e, personalmente l’ho interpretata come la metafora di una wrecking ball di rottura ma non sul passato.
Il tempo è da demolire. Perché nonostante tutti gli anni trascorsi, costellati da accadimenti drammatici, è come se la storia fosse stata scritta oggi.
E Rita Moreno diventa come un fulcro di umana sofferenza, attorno al quale si manifesta il reiterato dolore ciclicamente ricorrente nonostante il tempo trascorra.
In questo video riceve l’Oscar per l’interpretazione del personaggio di Anita nel 1962
Questo invece è il post con il quale si complimenta con Ariana DeBose per la recente vittoria per avere interpretato Anita, diversamente eppure con altrettanta efficacia.
Per Rita Moreno nel film di Spielberg è stato creato il ruolo di Valentina: la vedova di Doc, che aiuta e sostiene Tony dopo le sue disavventure con la giustizia, ma in varie interviste è stata definita la “mamma” di West Side Story per come ha consigliato, assistito, supervisionato instancabilmente.
E ovviamente tutto questo mi è entrato nel cuore.
Senza contare la sua battuta per me iconica: Tony le chiede di tradurre “per sempre” perché vuole dichiararsi a Maria in spagnolo e lei, spaventata da quell’idea di assoluto tragicamente irreale, risponde qualcosa come “perché non dire semplicemente vorrei prendere un caffè con te?”
Eh!
Indubbiamente è una dichiarazione comunque importante, vero!?
E mentre bevi il caffè, ti consiglio ancora una volta l’analisi dettagliata e professionale di Matavitatau.
C’è un brano in particolare che preferisci dalla colonna sonora di West Side Story?
Sono tutte canzoni destinate a rimanerti nella mente una volta ascoltate, ma, tanto per citarne tre clamorosamente strafamose, sei più per Tonight, Maria, oppure America?
La famiglia Gucci si è più volte dissociata dal ritratto che il film tratteggia, e non entro nel merito, ma ora finalmente posso dire che Lady Gaga in House of Gucci è veramente credibile, per la visione che ne ho avuto io.
Quindi, riprendendo il discorso su Patrizia Reggiani, a quanto pare la decisione di Lady Germanotta di non incontrarla non ha pregiudicato l’interpretazione, nonostante la Reggiani fosse indispettita.
Ovviamente ho osservato abiti, accessori, e outfit in generale, con particolare interesse sia per i pezzi Gucci, sia per i look anni 80, e devo dire che ho apprezzato il lavoro della costumista Yanti Yates.
Lavoro molto scrupoloso, partito da mesi di studio tra gli archivi della maison Gucci.
In una intervista al New York Times, disponibile in forma integrale su Instagram, Yanti Yates ha dichiarato che Lady Gaga era estremamente coinvolta, anche perché è una indossatrice completa, che sta meravigliosamente bene con tutto, che era estremamente concentrata su come il suo personaggio potesse apparire in un momento particolare e aveva opinioni molto forti su aspetti come i capelli e il trucco.
Ma anche lavoro difficoltoso, sempre secondo le dichiarazioni rilasciate durante l’intervista: la costumista creava le selezioni iniziali e poi lei avrebbe selezionato da lì.
Selezionava Gaga. Pare anche che ci siano stati giorni in cui per lei era “oggi no.”
Del resto lo stesso sito Gucci riporta come dichiarazione iconica di Yanti Yates: “Lady Gaga mi ha detto che in questo film voleva vestirsi come la sua mamma italiana. Per realizzare i suoi look ho potuto attingere sia al suo archivio personale che a quello storico di Gucci.”
Allo stesso tempo però ho questo dubbio che mi rigira in testa, quindi aiutami a capire se la mia percezione mi inganna dato che, effettivamente, nei primi anni 70 non è che fossi proprio nel mondo (se per quello nemmeno ora, ma questa è un altra storia).
Purtroppo non sono riuscita a trovare l’immagine della scena in cui Maurizio Gucci presenta Patrizia al padre Rodolfo, ma più o meno vale lo stesso anche per l’abito a fiori di questa foto.
Ovviamente io non sono nessuno per mettere in dubbio la ricostruzione, che in tutti gli altri frangenti ho ammirato, e lo sottolineo bene, ma l’idea di questo vestito mi lascia perplessa. Sbaglio io, vero?
Oltre agli abiti, House of Gucci offre la visione di una fantastica serie di preziose auto “d’epoca.”
In particolare, ho amato molto il modo in cui il regista Ridley Scott inquadra gli arrivi a casa di Rodolfo Gucci: focalizzati sull’ingresso. Dall’esterno verso l’esterno.
Questa inquadratura ricorre più di una volta nel film, con auto diverse che arrivano davanti a quella entrata.
Per me è stata una sorta di “storia nella storia,” quasi un simbolo per scandire il tempo.
Nella foto qui sotto, con lo stesso principio, in contrapposizione si assiste ad una partenza. Che poi è anche un inizio: l’inizio di una strategia per il rientro di Maurizio nell’azienda.
Per il resto ti rimando alla recensione di Matavitatau, io, un po’ come per Cruella, ho molto gradito la colonna sonora non originale.
Come per gli abiti a fiori, ho avvertito una sorta di disorientamento temporale che in alcuni casi mi ha conquistata, in altri mi ha lasciata una specie di interrogativo.
Ad esempio, mi è piaciuta la scelta di Faith di George Michael per accompagnare la scena del matrimonio: nonostante l’incongruenza anacronistica, mi ha trasmesso una gioiosità che controbilanciava il vuoto creato dall’assenza dei familiari di Maurizio.
Al contrario sono rimasta perplessa nell’ascoltare Ritornerai di Bruno Lauzi come sottofondo alla scena in cui Aldo Gucci si reca con Maurizio e Patrizia nella tenuta sede del loro allevamento storico. La canzone è meravigliosa, ça va sans dire, e il senso è incentrato sul ritorno alle origini, però per la mia personale percezione è come se qualcosa stridesse.
A parte questo, potrei elencarti un brano più bello dell’altro, e vorrei proporteli tutti: Here comes the rain again degli Eurythmics chettelodico a fare, Heart of glass di Blondie, Ashes to ashes del Duca Bianco David Bowie, Blue Monday dei New Order, Una notte speciale di Alice, Sono bugiarda di Caterina Caselli, ma anche Largo al factotum da Il Barbiere di Siviglia di Rossini, Madame Butterfly e molto molto altro.
Mentre scegli quale preferisci ascoltare prima, ecco qualche caffè.
Cosa hai fatto oggi per guadagnarti un posto in questo mondo affollato?
Il personaggio interpretato da John Cusack pone questa domanda a tutti i suoi interlocutori in Utopia.
Nominando Utopia la mia prima associazione di pensiero è Tommaso Moro.
Tra l’altro, rimanendo nell’ambito della finzione cinematografica, Thomas More viene citato nella Cenerentola leonardiana interpretata da Drew Barrymore, per esempio.
Ma ho scoperto che Utopia è anche un film sugli aborigeni australiani, e nel vedere il doloroso trailer sembra che il tempo si sia fermato all’epoca raccontata da Baz Luhrmann.
Utopia però è in qualsiasi espressione di pensiero.
Utopia è una controversa serie di Channel 4 ripresa poi per una produzione Amazon curata da una showrunner di eccezione: Gillian Flynn, autrice di Gone Girl e sceneggiatrice di David Fincher, che appare in tre differenti cameo, e dissemina vari Easter eggs.
Utopia diventa dunque graphic-novel. Virale …
Uno strampalatissimo gruppo di fan a caccia di questo misterioso “fumetto” da interpretare per enigmi, si ritrova catapultato in una realtà che prefigura distopia piuttosto che Utopia.
Fumetto a dire il vero non proprio, si tratta di una serie di disegni dell’artista Joao Ruas: alcune delle ispirazioni alla base del suo lavoro sono l’alba dell’umanità, il folklore, il realismo magico, il concetto di wabi-sabi (侘寂) e il conflitto umano.
E il conflitto umano viene espresso in vari e svariati modi, appunto.
Gillian Flynn, in un’intervista al New York Times ha dichiarato: “Penso che sia un test di Rorschach … È uno spettacolo progettato per farti trovare quello che vuoi da esso e avere diversi punti di vista, che è esattamente dove siamo in questo momento.”
A proposito di punti di vista, John Cusack, in questo suo primo ruolo in una serie interpreta Kevin Christie … ma piuttosto che alla mia Agatha, si ispira a ben noti personaggi di tutt’altro genere.
Chi lo segue ha modo di conoscere quanto John nutra una certa avversione per alcuni alter ego di Mr. Christie, ragion per cui si è trattato di una interpretazione catartica.
Nella sua ricca intervista pubblicata da The Guardian oltre a definirsi una specie di Cassandra, mi ha regalato un finale strepitoso!
Cusack si strofina gli occhi stanchi. Beve dal suo grande boccale di caffè (!) di latta. Chissà, dice? “Forse essere schietto fa male alla tua carriera… Sono solo consapevole che mi aiuta a dormire meglio la notte, sapendo che non sono stato passivo durante questo periodo.”
In fondo, una consapevolezza del genere, non è già una sorta di Utopia per molti di noi?
Amo UTOPIA, su Amazon Prime. Potrebbe non essere la tazza di tè di tutti, visti i tempi in cui viviamo, ma ha la struttura lenta a tutto vapore che associo ai romanzi che voltano pagina. Orribile, violento e, occasionalmente, divertente da ridere.
Ho lasciato “tazza di tè” anche se ovviamente non è la traduzione corretta, perché se si parla di tazze … potrebbe essere di caffè?! Scherzo
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