C’È ANCORA DOMANI

C’È ANCORA DOMANI

C’è ancora domani che vede l’esordio alla regia di Paola Cortellesi è il film vincitore di Premio del Pubblico, Premio Speciale della Giuria e Menzione come Migliore Opera Prima alla Festa del cinema di Roma

Paola Cortellesi non necessita certo di presentazione, io ricordo sempre una delle sue gag nelle quali ironicamente elencava tutte le cose che ha fatto, che sono davvero tantissime e molto diverse tra loro, ma che hanno un costante elemento in comune: sono tutte fatte bene.

Devo ringraziare Elisa e la sua proposta: siamo andate al cinema insieme temendo di dover usare fazzoletti e invece ci siamo soprattutto sorprese.

Le Amiche.
Nel film: Delia e Marisa.

La commozione comunque non è mancata.

Per quanto mi riguarda io mi sono emozionata di fronte alla rappresentazione dell’amore materno nei confronti della figlia, che nel film viene interpretata da Romana Maggiora Vergano.

Un amore al di sopra di ogni cosa, un amore per il quale nulla è impossibile, un amore puro e incrollabile.

Fragilità e forza in un vortice di sopportazione e determinazione nel quale la capacità di portare il peso schiacciante di una lunga interminabile serie di ingiustizie e angherie verbali e fisiche, si catalizza nella risoluta volontà di ricercare un destino migliore per Marcella.

Madre e figlia.
Una madre schiacciata e una figlia modello che non comprende la sottomissione di Delia.

Soccombere e resistere allo stesso tempo, in una danza che è melodia spezzata, è rock, è hip hop rap, è retrò.

Marcella non capisce, ma capirà.

Marcella guarderà la madre Delia e vedrà l’affermazione di un gesto apparentemente semplice ma estremamente importante, come un diritto, come un inizio.

Ogni cambiamento ha un inizio.

C’è ancora domani rappresenta “la musica che cambia” in senso letterale: non posso non citare i brani di repertorio della colonna sonora:

Aprite le finestre Fiorella Bini
Nessuno Musica Nuda
Perdoniamoci Achille Togliani
A bocca chiusa Daniele Silvestri
M’innamoro davvero Fabio Concato
La sera dei miracoli Lucio Dalla
Calvin The Jon Spencer Blues Explosion
B.O.B. – Bombs Over Baghdad Outkast
The little things Big Gigantic featuring Angela McCluskey
Swinging on the right side Lorenzo Maffia e Alessandro La Corte
Tu sei il mio grande amor Lorenzo Maffia, Alessandro La Corte e Enrico Rispoli.

Soprendente, non trovi?

Soprendente come ciò che non ti aspetti da C’è ancora domani: il finale.

In effetti in cuor mio speravo che il progetto di Delia non fosse quello più scontato, ma allo stesso tempo non avrei indovinato un epilogo come quello con il quale Paola Cortellesi invita tutti ad una bella riflessione.

Leggera eppure esplosiva, semplice ma dirompente, proprio come Delia, proprio come Paola.

Sì perché Delia è Paola, è Marcella, ed è la nostra nonna.

Delia è tante vite di rinuncia, Delia è tanti anni di sofferenza.

Come niente fosse.

LA RILEGATRICE DI STORIE PERDUTE

LA RILEGATRICE DI STORIE PERDUTE

La rilegatrice di storia perdute è il libro che ho letto ancora una volta grazie a Monica.

A proposito di amicizia, Sas Bellas Mariposas e Mamaglia sono esperte conoscitrici dell’autrice: Cristina Caboni, chissà se magari vorranno raccontarci qualcosa.

Nel frattempo io vorrei chiacchierare più di come mi sono piaciute in particolare le parti che descrivono il procedimento di rilegatura nel primo Ottocento.

Oggi quanto tempo occorre per creare un libro?
Sul web si trovano varie opzioni di consegna in 24 ore.

E ogni volta ci ritroviamo con la solita domanda: abbiamo guadagnato o abbiamo perso?

Recentemente con mio marito ci siamo ritrovati alla ricerca di una figura che svolgesse ancora una professione legata alle tradizioni del passato, ma qui in zona purtroppo abbiamo dovuto constatare l’estinzione di determinati tipi di lavoro.

Trovo molto triste che si sia interrotta quella preziosa catena del tramandare il sapere e dell’insegnare la pazienza e il tempo che occorrono per acquisire abilità.

È quasi come se, interrompendo la tradizione orale, ci priveremo del privilegio di poter conoscere storie perché non ci sarà più nessuno a raccontarle.

Mi piacerebbe quindi moltissimo riprendere il concetto di “rilegatura” di storie perdute per unirle e per continuare a fare in modo che vivano con noi.

Ho trascorso molto tempo ad ascoltare una delle mie nonne che raccontava della sua infanzia in una famiglia contadina, parlarmi di un’epoca apparentemente lontanissima, di uno stile di vita essenziale, di oggetti che noi non useremo mai.

L’altra mia nonna invece ha avuto meno vita a disposizione ma ugualmente i suoi racconti rimangono indelebili, così come le sue ginocchia da mondina

Il mio bisnonno invece faceva il carité, il carrettiere ed è il suo viaggiare per lavoro che ha fatto sì che sposasse la mia bisnonna: tedesca, a dispetto del detto “moglie e buoi dei paesi tuoi …” scherzi a parte, il loro è stato un matrimonio piuttosto anticonformista considerati periodo storico e condizioni sociali.

Ma dimmi tu! Mi piacerebbe moltissimo “ascoltarti.”

Se hai un mestiere da raccontare, se vuoi che una storia non vada persa, se desideri tramandare un racconto, un pensiero, un concetto, un proverbio, una esperienza o anche semplicemente un commento, io te ne sarò grata e lo aggiungerò alle storie perdute da rilegare.

 

SONO NATA IL GIORNO DELLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

SONO NATA IL GIORNO DELLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA

 

Sono nata il giorno della strage di Piazza Fontana e sfido persino chi non è superstizioso a non vederci segni nefasti.

Sono nata in casa, sul tavolo della cucina, come una pagnotta fresca di prima mattina.

Al richiamo di mia madre che lo scuoteva dicendo “è ora,” mio padre pensò bene di girarsi dall’altra parte per continuare a dormire.

Come dargli torto? Stavo arrivando all’alba importuna come una sveglia.

Sono nata a Cilavegna e sono una delle ultime persone a poterlo dire: a partire da gennaio 1970 non fu più possibile avvalersi di un’ostetrica, e divenne obbligatorio partorire in ospedale. Non essendoci ospedali a Cilavegna, da quella data in avanti i nuovi nati videro la luce altrove.

Sono nata in Lomellina, terra di nebbia e zanzare, ma mio padre ha origini venete e la mia bisnonna da parte di madre era tedesca. In pratica sono un miscuglio.

Sono nata in una famiglia semplice, ho avuto cose semplici e un’infanzia felice.

La nonna materna, che mi accudì dal momento in cui mia madre riprese il suo lavoro di impiegata, aveva le ginocchia gonfie di tutti i suoi giorni da mondina, e, non potendo muoversi agilmente, mi intratteneva raccontando.

Il risultato fu che prima di iniziare a camminare parlavo perfettamente senza i classici storpiamenti infantili, e conoscevo filastrocche, preghiere e numeri.

Le parole furono i miei primi giochi, le mie prime amiche, il mio primo nutrimento.

Nonostante ciò, il debutto alla scuola materna fu piuttosto traumatico: la mia timidezza era inesorabile.

Non avevo ancora capito il piacere della chiacchiera e della socialità, concetto che ho ampiamente recuperato dopo il medioevo della adolescenza.

Ma procediamo per gradi: per le suore che conducevano l’asilo, il mio difetto di interazione non era un aspetto degno di nota, anzi. Piuttosto, il problema era creato dalla mia incapacità di addormentarmi dopo pranzo.

Ferma nella mia brandina, intrecciavo in silenzio le frange dei ruvidi plaid a quadrettoni sotto i quali avrei dovuto invece prendere sonno.

Non mi sembrava di creare disturbo, ma quello fu uno dei miei primi errori di valutazione: ho ancora nitido il ricordo del rimprovero di Suor Antonia, che tra le sorelle era quella più brava e quieta.

Successivamente piuttosto che le frange presi ad intrecciare i miei tentativi di intenerimento al grande cuore di mio nonno. Lui faceva i turni di notte e la mattina, esausto, invece di andare a riposare accoglieva le mie richieste, avallando di fatto l’intento di saltare la scuola materna.

Un tumore se lo è portato via quando avevo solo cinque anni lasciandomi in cambio un vuoto enorme e un desiderio irrealizzato.

Mi diceva sempre “appena sarò in pensione ti insegnerò il tedesco.”

Durante la guerra fu usato come interprete dopo che un ufficiale tedesco, colpendolo, lo sentì replicare nella sua lingua.

Pensavo che avrei imparato facilmente, che avrei ascoltato felice come con le storie della nonna, e invece non ha potuto dirmi più nulla.

Quando giunse il tempo delle elementari il giovedì non si andava a scuola, ma ormai a me non importava granché.

Qualcuno ci chiamava ancora remigini: in fila per due, mano nella mano, con il soprabitino sopra al grembiule nero dal quale spuntava il grosso fiocco blu annodato sotto al colletto bianco.

Si iniziava il primo di ottobre quando ancora i banchi erano scrittoi, e le cartelle contenevano un quaderno a quadretti e uno a righe, di quelli piccolo formato, con il foglio di carta assorbente per l’inchiostro delle penne stilografiche: testimoni di una scrittura che non esiste più.

… CONTINUA

Foto by Massimo

VACUUM POT E BALANCING SYPHON

VACUUM POT E BALANCING SYPHON

Eravamo partiti dal 1884 e dalla prima macchina per il caffè espresso creata da Angelo Moriondo ma Lu del blog The Caustic Misanthrope, oltre ai consigli sul riso mi ha segnalato la caffettiera del diciannovesimo secolo!

In origine era la Vacuum: illustrata in questo video di Trieste Coffee Experts: una manifestazione che ci riporta in un luogo del quale abbiamo già parlato per la sua filiera del caffè

La Vacuum chiamata anche Vac Pot o Syphon Pot, è nata nel 1830.

Nel 1850 la successiva evoluzione: Balancing Syphon Brewer.

La Balancing Syphon è composta da due contenitori con un tubo a sifone che li collega.

Il caffè viene posto in uno dei due contenitori, in genere di vetro, e l’acqua nell’altro in ceramica oppure in rame.

Una lampada ad alcool riscalda l’acqua, forzandola attraverso il tubo verso l’altro recipiente, dove si mescola con il caffè.

Al variare del peso viene attivato un sistema di bilanciamento basato su un contrappeso o un meccanismo a molla il quale a sua volta provoca lo spegnimento della lampada.

Si forma un vuoto parziale, che aspira la miscela originatasi attraverso un filtro, e la riporta nel primo recipiente, dal quale viene erogato il caffè tramite un rubinetto.

Tu hai pronta la tazzina?

Che ne dici, volendone fare una questione di famiglia, possiamo dunque dire che Vacuum Pot e Balancing Syphon sono la nonna e la bisnonna della moka?

Certo i nomi Vacuum Pot e Balancing Syphon suonano più scientifici che familiari, ma le loro ampolle rappresentano anche il calore, l’attesa, il rito che prelude a qualcosa di buono.

A questo punto rimangono gli anelli di congiunzione e a questo proposito ripenso alla caffettiera smaltata con decorazione floreale con la quale i miei genitori prima, e mio fratello poi, hanno decorato la cucina.

Io poi ho questa piccoletta

come la vogliamo chiamare?

E tu?

EGG COFFEE

EGG COFFEE

 

Girovagando, purtroppo solo in maniera virtuale, ma ci si accontenta, mi sono imbattuta nell’egg coffee.

Tu lo conoscevi già?

Io l’ho trovato in Minnesota, dove viene portata avanti la tradizione di questa ricetta che in realtà viene definita come Scandinava.

E a questo punto chiederei l’aiuto di Luisella

Nel Midwest il caffè con l’uovo viene anche chiamato Lutheran coffee o Church basement coffee ed è diventato una specialità locale, apparentemente non più conosciuta invece in Scandinavia come si desume dal tono di questo tweet di Minnesota Brown.

Tra l’altro Salem! Curiosa coincidenza, non trovi?

Il collegamento tra Scandinavia e Minnesota risale a metà del 1800 quando gli immigrati scandinavi portarono il loro metodo di preparare il caffè con l’uovo nel Midwest degli Stati Uniti per migliorare il caffè non ottimale disponibile.

L’uovo assorbe i tannini e le impurità che in genere conferiscono amarezza e sgradevolezza alle tazze di caffè bollito di bassa qualità.

Svedesi e norvegesi hanno inventato questo metodo di preparazione, che richiede di rompere un uovo intero nei fondi di caffè con un po’ d’acqua, mescolando il tutto.

Dopo aver portato a ebollizione l’acqua in una caffettiera, viene aggiunta la miscela di caffè che deve rimanere in infusione.

In questo video che ho trovato davvero interessante si vede bene il procedimento

Non sembra male, tu che dici?

Joy K. Lintelman  ha scritto un articolo molto approfondito: A hot heritage – Swedish Americans and coffee, ho trovato molto belle le immagini storiche.

Invece Joy Estelle Summers racconta per Eater
Ricordo di aver guardato mia nonna che ci preparava il caffè all’uovo quando visitavamo la sua baita estiva sulle rive arancioni del lago Esquagama, nel Minnesota. Rompeva un uovo in una ciotolina e lo sbatteva fino a quando non si era ben amalgamato, quindi mescolava l’uovo con i fondi di caffè secchi …

Bellissimo questo ricordo della nonna, vero?

E “la” tua nonna, cosa preparava?

Pin It on Pinterest